Davide Peccioli


Recensione di 'La luna e i falò' di Cesare Pavese


Di Cesare Pavese


Cesare Pavese è uno scrittore italiano del ‘900, morto suicida nel 1950. Schierato antifascista, nel romanzo in questione inserirà personaggi autobiografici (come quello del Nunto, che rappresenta un suo amico di infanzia). La luna e i falò sarà l’ultimo romanzo scritto da Pavese, prima del suicidio.

L’opera racconta la storia di un uomo che ritorna nel suo paese d’origine, Santo Stefano Belbo, per un soggiorno estivo, dopo essere vissuto negli Stati Uniti, e dopo aver fatto fortuna.

Viene seguito uno schema narrativo intrecciato, in quanto il protagonista è anche narratore interno, che oltre agli avvenimenti del tempo presente, descrive al passato alcune situazioni, non per forza in ordine cronologico, quanto più in ordine tematico, ricollegando le memorie agli avvenimenti nel presente.

Il protagonista, uomo nato senza conoscere i genitori, e allevato fin da piccolo da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, dopo essere fuggito dal paese natale ha girato il mondo, facendo fortuna in America, e ritornando a casa cambiato. Infatti, a Santo Stefano, più nessuno lo riconosce, a parte il suo più caro amico, nonché mentore, Nunto.

Il libro non presenta una trama complessa, e sicuramente, nelle intenzioni dell’autore, non c’era quella di fornire al romanzo delle vicende mozzafiato, bensì quello di descrivere la vita in quella parte di Piemonte in cui Pavese è nato e cresciuto, e soprattutto i cambiamenti che quest’ultima ha subito a causa della guerra; vi è infatti una forte opposizione tra il passato, tratto dall’infanzia e dalla prima giovinezza del protagonista, e il presente, raccontato in prima persona, ma in maniera più distaccata, poiché il narratore non fa più parte dell’ambiente. Questa opposizione è delineata non solo dall’evidenza dei fatti, bensì proprio dalle parole stesse dei personaggi, che costantemente analizzano le differenze.

Altro tema fortemente trattato è quello delle difficoltà della vita agricola in quelle valli, specie dopo la guerra, che ha portato i contadini a contratti di mezzadria che li portano a vivere di stenti, e che ha abbassato notevolmente la ricchezza in quelle zone. Sempre a proposito della guerra, nel romanzo viene analizzata la Seconda Guerra Mondiale con gli occhi di gente semplice, ignorante, e si possono delineare le opinioni discordanti che vi erano tra il popolo all’epoca, in cui, peraltro, il comunismo era una realtà molto presente in Italia.

In particolar modo si identificano le visioni di due personaggi: il Vallino, uomo semplice, mezzadro, che vive di stenti, e che ha poca considerazione, e soprattutto interesse per la guerra: la vede come una disgrazia assoluta, poiché ha ridotto il popolo in povertà, e a suo avviso sarebbe dovuta essere evitata, ma nonostante questo non ha minima cognizione delle fazioni coinvolte, né delle implicazioni politiche di quest’ultima.
Nunto invece è molto più interessato alla guerra, e ritiene che fosse necessaria: la vedeva come necessaria al fine di sollevare i contadini, ed elevarli a condizioni di vita migliore. Probabilmente ha ben chiari i risvolti politici derivati.

In relazione alle condizioni di miseria delle campagne, viene trattato anche il tema del comunismo. Nunto, coprotagonista della vicenda, è comunista, e considera la vita dei suoi concittadini come inumana, tanta povertà la permea. Nonostante ciò che ci si potrebbe aspettare, però, nel paese in pochissimi sono comunisti; il prete è schierato contro di loro, e i cittadini sono invogliati a seguirlo.

Il romanzo, in generale, può essere visto come una immagine fedele dell’Italia del secondo dopo-guerra, dal punto di vista del popolo, e non con la focalizzazione classica della Storia. Può facilmente essere paragonato a Furore di Steinbeck, in quanto entrambi sono descrizioni accurate di periodi storici ben precisi.